Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia (OVOItalia)
Comunicato stampa
26 febbraio 2018
A pochi giorni dall’uscita delle nuove raccomandazioni dell’OMS sull’”Assistenza intrapartum per un’esperienza positiva della nascita”, l’interesse dei media e delle istituzioni si è acceso in merito alla situazione attuale in Italia – un paese con il tasso di tagli cesarei tra i più alti al mondo. Un indicatore del fatto che qualcosa sta funzionando male nel sistema sanitario nazionale e che andrebbero prese misure urgenti e innovative per invertire la rotta. Il coinvolgimento delle donne e madri nelle politiche sanitarie che le riguardano è necessario.
L’assistenza alla nascita deve essere prima di tutto rispettosa. Urgente il coinvolgimento delle utenti.
Le nuove linee guida dell’OMS per l’assistenza alla nascita sottolineano che il parto deve essere un’esperienza positiva per la donna. Ossia, non basta che la donna e il nascituro ne escano vivi, possibilmente senza danni, ma è importante che abbiano un’esperienza del parto gratificante, priva di abusi e maltrattamenti. Questa è l’assoluta novità di questo documento.
Il documento non parla in nessuna delle sue parti del “diritto all’epidurale”, come è stato promosso nei media, ma ne raccomanda l’uso se la donna lo desidera, nonostante la complessità degli esiti correlati all’utilizzo di questa procedura medica, tutti elencati nel documento. L’OMS inoltre suggerisce, per la gestione delle doglie, le tecniche di rilassamento come il rilassamento muscolare, respirazione, musica, mindfulness e altre tecniche, per le donne che richiedono sollievo dal dolore.
Ricordiamo che il rispetto delle linee guida rientrano nella normativa italiana, in particolare con l’attuazione della Legge 24/17, la cosiddetta Gelli-Bianco “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”. Pertanto, si tratta di un documento rilevante nei contenziosi legali.
La prima raccomandazione è di fornire un “assistenza alla maternità basata sul rispetto” (respecful maternity care) e incentrata sulla tutela dei diritti umani delle partorienti e dei nascituri. “Si raccomanda l’assistenza alla maternità rispettosa – intesa come cura organizzata per e fornita a tutte le donne nella maniera tale da mantenere la loro dignità, privacy e riservatezza, ed assicurarsi che non subiscano lesioni e maltrattamenti, che consenta la scelta informata e il sostegno continuo durante il travaglio e la nascita.”
Come spiega l’OMS, fornire un’assistenza alla maternità rispettosa, basata sui diritti umani, riduce la morbilità e mortalità materne. È una questione di vita o di morte, di sicurezza e riduzione del rischio. Nel documento viene specificato che “data la complessità dei fattori di maltrattamento durante il parto nelle strutture ospedaliere, ridurre gli abusi e migliorare l’esperienza delle donne in merito all’assistenza richiede interventi a livello relazionale tra la donna e il personale che la assiste, insieme agli interventi a livello della singola struttura e del sistema sanitario.”
Le linee guida dicono che è essenziale una “comunicazione efficace e il coinvolgimento tra i fornitori di assistenza, gli amministratori dei servizi sanitari, le donne, le rappresentanti dei gruppi di donne e le rappresentanti del movimento per i diritti delle donne per assicurare un’assistenza che risponda ai bisogni delle donne e alle loro preferenze in tutti i contesti e in tutti i luoghi.”
Ed è proprio questo l’intento promosso dall’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia (OVOItalia) che da qualche anno cerca di stabilire un dialogo tra le madri, le istituzioni e i rappresentanti delle professioni che gravitano intorno alla nascita, sottolineando l’urgenza di affrontare quello che le donne e la legislazione internazionale hanno definito “violenza ostetrica”, riferendosi alle esperienze di abusi e maltrattamenti vissuti durante la nascita nelle strutture ospedaliere. “Non possiamo prescindere dal coinvolgimento delle donne e utenti per risolvere il problema delle inappropriatezze nell’assistenza. Si tratta di un modello innovativo di gestione del sistema sanitario, promosso sia dall’OMS sia da altri sistemi sanitari virtuosi, in cui la partecipazione degli utenti alle politiche sanitarie viene vista come una risorsa, non come un ostacolo”, dichiara Alessandra Battisti, avvocato per i diritti delle donne nel parto e co-fondatrice di OVOItalia.
L’indagine Doxa-OVOItalia ha dato un quadro della situazione nazionale, in cui è emerso che una donna su tre non si è sentita coinvolta nelle decisioni, il 41% si è sentita lesa nella propria dignità e integrità in merito alle pratiche vissute durante il travaglio e il parto e il 6% non ha voluto avere più altri figli a causa dell’assistenza traumatica subita al primo parto, un dato che si traduce in 20.000 nascite in meno ogni anno. Il 21% delle intervistate si sono dichiarate consapevoli di aver subito la violenza.
Alla luce di questi dati, quale posizione occuperebbe l’Italia se l’indicatore di riferimento fosse l’esperienza positiva del parto? È bene evidenziare che l’OMS già dalla precedente linea guida sull’”Assistenza prenatale per un’esperienza positiva della gravidanza” poneva in risalto questo nuovo approccio.
Nuovo approccio per contrastare l’abuso di cesarei: dopo decenni di soluzioni inefficaci ora è necessaria l’innovazione sociale
Una cosa è certa, l’Italia ha già da decenni un primato negativo. Benché il tasso dei cesarei abbia subito un lieve calo negli ultimi anni, e dal 38% nel 2008 è sceso a 35% nel 2014 (gli ultimi dati ministeriali disponibili), siamo ben lontani dall’11% del 1980 – la data che segna l’impennata del fenomeno dell’”epidemia dei cesarei” in Italia.
Di recente è stato pubblicato il report del Programma Nazionale Esiti – Edizione 2017, curato dall’Agenas, dal quale emerge che “la progressiva diminuzione della proporzione di parti cesarei primari [effettuati su una donna per la prima volta, nda], dal 29% del 2010 al 24,5% del 2016, ancora insufficiente rispetto allo standard internazionali, costituisce un contenimento importante: la propensione al parto chirurgico rappresenta infatti un comportamento difficile da cambiare, dove la dimensione opportunistica del fenomeno si affianca a una dimensione culturale di sottovalutazione diffusa, sia tra i professionisti sia nella popolazione femminile, dei minori rischi e dei maggiori benefici del parto naturale sia per la donna sia per il bambino.” L’Agenas sottolinea che nell’ultimo anno “si stima che siano 13.500 le donne alle quali è stato risparmiato un parto chirurgico, ma si conferma il dato di una forte eterogeneità interregionale e intra-regionale, a sottolineare come l’intervento sui processi culturali, clinici e organizzativi debba essere portato avanti, anche se ci sono chiari segnali di contrasto all’erogazione di prestazioni inefficaci o chiaramente dannose.” Una delle soluzioni proposte è la promozione del parto vaginale dopo il cesareo (VBAC), un’opportunità ancora troppo poco offerta alle donne.
Come hanno reagito le istituzioni a questi dati?
La Regione Campania, che detiene il primato dei cesarei con il 59,5%, punta su metodi tradizionali. In un’intervista a Skytg24, il Consigliere Sanità Regione Campania, Enrico Coscioni, propone ancora soluzioni di natura economica e dichiara che “per arginare il fenomeno, la Regione Campania ha messo in campo nuove linee guida che prevedono la diminuzione dei rimborsi economici alle strutture convenzionate che abusano del cesareo senza reali motivazioni”. Nell’ottica del rinnovamento del sistema sanitario, in linea con l’OMS, queste iniziative rischiano di non essere efficaci e di dirottare i cesarei – che magari sarebbero necessari e appropriati – verso parti vaginali operativi, disastrosi per le donne e i neonati.
La Regione Puglia, con il 43% di cesarei, ha istituito una Task force punti nascita per la riduzione del taglio cesareo, che vede impegnato in prima persona il dott. Giovanni Gorgoni, Commissario Straordinario dell’Agenzia Regionale Sanitaria della Puglia. In una recente intervista alla rete regionale Telenorba, il dott. Gorgoni ha dichiarato che il contrasto ai cesarei si concentrerà innanzitutto sugli audit con il personale sanitario all’interno delle strutture e poi sulla valorizzazione della figura dell’ostetrica, la professionista sanitaria della fisiologia del parto.
Video della trasmissione “Il Graffio”, andata in onda su Telenorba, il 23 febbraio 2018. Hanno partecipato Rosaria Santoro, ostetrica libera professionista, Giovanni Gorgoni, Commissario Straordinario dell’Agenzia Regionale Sanitaria della Puglia, dr. Ettore Ciccinelli, direttore del Policlinico di Bari e Elena Skoko come rappresentante di OVOItalia, #Bastatacere: le madri hanno voce.
Questa posizione è in piena conformità con le nuove raccomandazioni intrapartum dell’OMS per un’esperienza positiva del parto, che raccomanda “i modelli di assistenza alla maternità basati sulla continuità di cura da parte delle ostetriche, in cui un’ostetrica conosciuta dalla donna, o un gruppo di ostetriche conosciuto, sostiene la donna durante la gravidanza, nel parto e nel puerperio”.
Secondo il dott. Gorgoni l’alto tasso dei cesarei non è la conseguenza di opportunismo economico quanto di una cattiva gestione. La Regione Puglia, dichiara il Commissario Straordinario, fornisce un rimborso agli ospedali di 3.200 Euro per i parti naturali e 4.100 per i parti cesarei. Preoccupati per gli sprechi, oltre che per la salute, gli amministratori sanitari pugliesi intendono puntare sulla riduzione dei costi della sanità e calcolano che, se si arrivasse alla media nazionale del 35% di cesarei, la Regione risparmierebbe 3 milioni di Euro, mentre se si arrivasse al tasso auspicato dal Ministero della Salute, il 24%, il risparmio sarebbe di ben 5-6 milioni di Euro, che potrebbero essere investiti per altri servizi più urgenti.
Il Lazio è al quarto posto nella classifica nazionale (dopo la Campania, la Puglia e la Sicilia), con un tasso di cesarei del 39%, ben al di sopra del 10-15% auspicato dall’OMS e di 4 punti al di sopra della media nazionale. Secondo il Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, i dati sui parti primari sono in diminuzione. Tuttavia, siamo ancora a livelli insoddisfacenti, e poco è stato fatto per affrontare l’aspetto di “umanizzazione delle cure” che auspicherebbe di andare nella direzione del coinvolgimento delle utenti nelle decisioni che le riguardano, sia al livello individuale sia al livello di politiche sanitarie. Nell’ottica di migliorare gli esiti di salute e di ridurre gli sprechi in sanità è necessario puntare sull’esperienza positiva delle utenti, madri e cittadine nel momento così cruciale della loro vita e della vita dell’intera famiglia.
A quando la “Task force per la buona nascita” del Lazio? “Un’iniziativa partecipata, che includa le cittadine e utenti, sarebbe all’avanguardia e magari porterebbe risultati migliori rispetto a decenni di politiche inefficaci calate dall’alto”, afferma Alessandra Battisti, candidata con la Lista Civica Zingaretti Presidente alle prossime elezioni regionali del Lazio che si terranno il 4 marzo.
Un “nuovo umanesimo” nella sanità è alle porte?
“Bisogna risanare questo deficit dell’umanizzazione delle cure – tuona Carlo Picozza, giornalista d’inchiesta e capolista della Lista Civica Zingaretti Presidente – E’ necessario rimettere insieme i cocci di un patto che si è spezzato tra operatori della sanità e pazienti. La dignità è la prima medicina, è una consapevolezza nuova e questo va fatto soprattutto quando al centro è la donna che deve partorire. Nel Lazio è in corso un baby sboom, la nascita trova delle barriere che vanno abbassate. A conti rimessi a posto, ci sono le condizioni per farlo, ma devono essere impegnate le dirette interessate”.
Nel 2015, l’OMS sottolineava che “è necessario fornire il taglio cesareo alle donne che ne hanno effettivamente bisogno piuttosto che concentrarsi sul raggiungimento di una determinata percentuale”. Tuttavia, le istituzioni continuano ad affrontare il fenomeno dal punto di vista statistico e con metodi punitivi, tralasciando completamente l’aspetto umano sia di operatori sia di utenti, e soprattutto senza tenere conto delle esperienze di donne e bambini che vivono tutte queste politiche sulla propria pelle. Nel 2014 l’OMS aveva lanciato una dichiarazione per la “Prevenzione ed eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto nel parto presso le strutture ospedaliere”, invitando i governi e le istituzioni a coinvolgere le donne e utenti nell’affrontare questo triste fenomeno.
“Secondo i nostri dati e le testimonianze che abbiamo raccolto in questi anni, le donne vivono come abusi le pratiche assistenziali in cui NON sono state coinvolte, che vengono fatte a tradimento, che non erano necessarie e sulle quali non hanno ricevuto nessuna informazione. Il taglio cesareo non è vissuto come violenza se è stato fatto nell’interesse sincero della donna e del nascituro, se la donna è stata attivamente coinvolta nella decisioni e se lei e il suo bambino o bambina sono stati accuditi con rispetto, competenza e amore”, sottolinea Elena Skoko, la fondatrice dell’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia e promotrice della campagna social #bastatacere: le madri hanno voce che, nell’aprile del 2016, ha raccolto migliaia di storie traumatiche di parto in soli 15 giorni.